A un anno dall’invasione russa in Ucraina e dopo tre anni dall’inizio della pandemia da Covid-19, diversi analisti concordano sull’aggravarsi delle situazioni socio-economiche delle fasce più povere delle popolazioni anche europee. Ma dall’altro c’è chi guadagna e fa extra profitti.
Una nuova inchiesta di Greenpeace ha svelato che negli ultimi due anni le 20 multinazionali più grandi del settore agroalimentare hanno realizzato oltre 53 miliardi di dividendi, una cifra maggiore di quella che servirebbe a salvare 230 milioni di persone dalla povertà estrema.
Come in una spietata bilancia, mentre poche grandi multinazionali (e i loro azionisti) si sono arricchite, nel mondo sono aumentate la povertà e l’insicurezza alimentare, in parte a causa dei cambiamenti climatici, in parte in seguito alla pandemia da Covid-19 e, in Europa ma non solo, alla guerra in Ucraina, che ha causato l’impennata dei prezzi di alcuni generi alimentari essenziali.
Come funziona
Nel settore food le grandi aziende multinazionali godono di tre grandi privilegi: pochi controlli, poche regole, poche responsabilità.
Un esempio è quello del commercio dei cereali: una delle materie prime per eccellenza, alla base dell’alimentazione di quasi tutte le persone nel mondo. Solo quattro aziende – Archer-Daniels Midland, Bunge, Cargill e Dreyfus – note anche come ABCD controllano più del 70% del commercio mondiale di cereali, ma non hanno alcun obbligo di rivelare informazioni cruciali per gli equilibri dei mercati globali come, ad esempio, l’entità delle scorte di cereali in loro possesso. Un fattore che si è rivelato chiave per alimentare i processi speculativi che hanno fatto schizzare i prezzi del grano dopo l’invasione dell’Ucraina da parte della Russia, letteralmente affamando intere popolazioni, principalmente in nord Africa e Medio Oriente.
Le quotazioni del grano aumentano quando la sua disponibilità sul mercato diminuisce, anche se la scarsità, come avvenuto con i cereali nei primi mesi del conflitto, è più percepita come un rischio futuro che un reale pericolo immediato o reale. In questo contesto le quattro “grandi sorelle dei cereali” hanno tutto l’interesse a trattenere le proprie scorte – o a non far sapere a quanto ammontano – fino a quando i prezzi non raggiungono il picco.
E se le loro scorte rappresentano una fetta ampia di quelle totali, l’effetto può essere devastante. Nella prima settimana di conflitto la compravendita dei futures (strumenti finanziari) sul grano, solo nel mercato ufficiale è cresciuta tra il 40 e il 60%, e il prezzo della farina macinata alla borsa di Parigi è schizzato al livello record di 400 euro la tonnellata. Per comprendere l’impatto di questi numeri basti pensare che, secondo la Banca Mondiale, per ogni aumento di un punto percentuale dei prezzi alimentari, 10 milioni di persone nel mondo oltrepassano la soglia della povertà estrema.
Il “Made in Italy”
Si potrebbe pensare che il sistema agroalimentare italiano sia distante dalle multinazionali, in realtà aprendo il meccanismo di scatole cinesi di queste grandi corporation, scopriamo che non sempre è così.
Il gruppo brasiliano JBS, con oltre 71 miliardi di dollari di ricavi nel 2022, che in Italia controlla Rigamonti, marchio conosciuto in particolare per la bresaola della Valtellina.
A dicembre 2021 JBS ha concluso l’acquisto del gruppo King’s, primo operatore italiano nella produzione di Prosciutto di San Daniele D.O.P. e player di spicco nella produzione di Prosciutto di Parma D.O.P, riconosciuto dal governo italiano come “Marchio Storico di Interesse Nazionale”. L’obiettivo dichiarato da JBS è di raggiungere “ricavi netti per ca. €110 milioni di euro entro la fine dell’anno grazie ad un’operazione strategica per l’espansione di JBS negli Stati Uniti e in Europa” grazie alla possibilità di produrre e distribuire “autentiche specialità italiane in tutto il mondo”.
Per il settore latticini, la multinazionale Lactalis controlla infatti Galbani e Parmalat e nel 2021 ha realizzato ricavi per 26 miliardi di dollari, posizionandosi al primo posto tra le big dei latticini.
Le multinazionali entrano nel cosiddetto “Made in Italy” anche in modo indiretto: per esempio, attraverso le milioni di tonnellate di soia che viaggiano dal Sud America fino agli allevamenti intensivi italiani, o di cereali, in particolare mais e frumento, destinati alla mangimistica. Il principale porto di ingresso della soia in Italia è il porto di Ravenna, dove, non a caso, è situata la sede italiana di Bunge con i suoi giganteschi silos dove sono stivati cereali e semi oleosi. Ma anche il gruppo Cargill vanta in Italia 9 sedi distribuite lungo tutto lo stivale e detiene una fetta importante del commercio di cereali nel nostro Paese.
Le responsabilità delle istituzioni
In un modello agroalimentare in cui poche grandi multinazionali controllano intere filiere strategiche, un maggior ruolo delle istituzioni pubbliche e politiche è necessario per garantire l’accesso a cibo sano e a prezzi equi, tanto per i consumatori che per i piccoli produttori.
I governi a livello internazionale, nazionale e locale hanno un ruolo chiave per limitare il monopolio delle grandi corporation nei sistemi alimentari, garantendo una maggiore trasparenza e regolamenti più rigorosi sulle operazioni finanziarie al fine di frenare la speculazione e, laddove sia chiara la realizzazione di extraprofitti a seguito di inattesi cambiamenti del mercato, come avvenuto in seguito al conflitto in Ucraina, applicando una altrettanto “extra” tassazione.
Sempre secondo Greenpeace i governi possono avere un ruolo importante anche nel ridurre la forbice tra grandi ricchi e nuovi poveri: l’imposta sui dividendi, ad esempio, dovrebbe essere almeno pari a quella sul reddito da lavoro dipendente, così come dovrebbe essere applicata una tassa patrimoniale di solidarietà una tantum sull’1% dei redditi più alti, in riconoscimento del massiccio trasferimento di ricchezza globale provocato dalle recenti crisi.
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