Il Consiglio di Stato ha respinto la sentenza del Tar di Lecce che ordinava entro 60 giorni lo spegnimento dell’area a caldo dell’ex Ilva. Di conseguenza gli impianti potranno continuare a produrre.
Le motivazioni del Consiglio di Stato
Per la Corte il potere di ordinanza d’urgenza è stato esercitato in assenza dei presupposti di legge, non essendoci la sussistenza di fatti, situazioni o circostanze tali da evidenziare o provare che il pericolo di reiterazione degli eventi emissivi fosse imminente, o che il pericolo paventato comportasse un aggravamento della situazione sanitaria di Taranto.
Inoltre, la Corte non ha trovato nemmeno conforto nelle risultanze dell’istruttoria del Tar di Lecce, dove è emerso che i più recenti dati emissivi non sono dovuti a difetti strutturali dell’impianto.
Un passo indietro
La vicenda giudiziaria nasce con un’ordinanza del Sindaco di Taranto emessa il 27 febbraio 2020, con la quale intimava Mittal e Ilva Spa in amministrazione straordinaria, a individuare gli impianti interessati dai fenomeni emissivi registrati tra il 20 e il 23 febbraio 2020, ed a eliminare gli eventuali elementi di criticità e le relative anomalie entro 30 giorni. Nel caso non si fossero risolte le criticità, Melucci chiedeva di spegnere l’intera area a caldo.
L’ordinanza fu impugnata da ArcelorMittal dinanzi al Tar di Lecce, che ordinò lo spegnimento dell’area a caldo entro 60 giorni.
L’azienda impugnò la sentenza al Consiglio di Stato che concesse la sospensiva del provvedimento di spegnimento dell’area a caldo, in attesa del giudizio definitivo, arrivato il 23 giugno 2021
La reazione delle associazioni del territorio
Per le associazioni ambientaliste di Taranto che da anni combattono per la chiusura dell’ex Ilva, la sentenza del Consiglio di Stato ha ritenuto più fondate le ragioni aziendali.
Alessandro Marescotti di PeaceLink ha fatto sapere che le associazioni di Taranto si faranno promotori di “un’iniziativa di tutela multilivello che solleciti contemporaneamente la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo di Strasburgo, il Comitato ONU per i diritti dell’infanzia di Ginevra, la Commissione Europea di Bruxelles, tutti gli organi nazionali preposti alla tutela dell’infanzia e infine anche la Procura della Repubblica per quanto di propria competenza.”
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