Il 3 settembre 1982, verso le 21, in via Isidoro Carini a Palermo, l’auto sulla quale viaggiava il prefetto Carlo Alberto Dalla Chiesa insieme alla moglie Emmanuela Setti Carraro, venne affiancata da una BMW da dove esplosero una raffica di kalashnikov. Contemporaneamente una motocicletta affiancò l’auto di scorta guidata dall’agente Domenico Russo.
Il Prefetto e la moglie morirono sul colpo, mentre Domenico, raggiunto al cranio da un proiettile, lottò per la vita per 12 giorni, morì il 15 settembre.
La verità parziale e la persistenza di ombre
Per la strage di Carini furono condannati all’ergastolo tanto i vertici di “Cosa nostra” Totò Riina, Pippo Calò, Bernardo Brusca e Michele Greco, come gli esecutori materiali.
La sentenza del 2002 restituì ai parenti delle vittime solo una verità parziale ammettendo: “Si può senz’altro convenire con chi sostiene che persistano ampie zone d’ombra, concernenti sia le modalità con le quali il generale è stato mandato in Sicilia a fronteggiare il fenomeno mafioso, sia la coesistenza di specifici interessi, all’interno delle stesse istituzioni, all’eliminazione del pericolo costituito dalla determinazione e dalla capacità del generale“
Dunque non fu solo un omicidio mafioso, ma anche politico. Il Prefetto era diventato “scomodo” anche per una parte politica che era nelle istituzioni.
Quelle istituzioni furono aspramente contestate dai cittadini il giorno del funerale di Dalla Chiesa. La figlia Rita, in una intervista a Fanpage, ricorda la presenza di tutti i politici, tranne di Giulio Andreotti. Per lei in quel nome e gesto c’era tutto.